Fondazione Boschi Di Stefano

Album di famiglia n.1

Le immagini che si susseguono in questo album

Di fotografie di persone, appartengono a degli anni nei quali io non ero ancora nato, tranne l’ultima datata 1939. Lì ero un bambino di otto anni, facevo finta di leccare un gelato da un cono che invece era vuoto, ero assieme a mia sorella Maria, e a mia cugina Rita, e alla nostra zia Marieda, regista della buffa performance. Eravamo in spiaggia a Riccione, sulla sabbia, seduti su un moscone. Una zia che le inventava tutte. Tempi felici. Un album di fotografie: tanti visi e tante figure sbiadite, lontane e sfumate, ma che emergono perfette nella mia memoria con le loro fisionomie e con i loro caratteri. Sono, da giovani i tanti membri della mia famiglia che io conobbi più tardi, quando erano grandi o vecchi: la mia famiglia prima della mia famiglia, il valore e il peso degli antenati.

Percorrere, allora, con lo sguardo le storie e gli aneddoti di questo passato, è un esercizio che faccio raramente, è per me una attività troppo romantica e anche un po’ angosciosa. Eppure io sono frutto di queste cose, e le fotografie di questo album esprimono dei fantasmi di vite, testimonianze di gioie, dolori, culture e costumi. Guardate da un osservatore esterno, queste tante persone un po’ liberty, un po’ decò e un po’ razionaliste, nei loro abiti e acconciature, diventano dei documenti d’epoca nelle loro pose immobili e definitive. I primi trenta anni del secolo scorso: prima guerra mondiale, fascismo e antifascismo, canzonette, Milano e la sua tanto solerte borghesia. Cesare, Mariuccia, Antonio, Lisetta, Vincenzo, Fulvia, Zizzetta, Marco, Agostino, nonna Mariettina.

Il nonno Chicchì (Francesco Di Stefano) colui che volle e costruì nel 1930 la palazzina di via Giorgio Jan, per sé e per ciascuno dei figli. Poi l’arrivo dei mariti per le figlie, fra essi l’ingegnere novarese Antonio Boschi per Marieda, e l’avvocato veronese Vincenzo Mendini per Fulvia (mia madre). Sono gli attori delle vite che si intrecciano nella famiglia prima della esistenza mia e della palazzina, e poi dentro di essa, anche con me. Cugini, zii, fratelli, generi, nuore, amici, avvocati, ingegneri, chimici, eccetera. Io nacqui in via Jan nel 1931.

Il nonno Francesco aveva commissionato il progetto della casa a Piero Portaluppi, e dalla cura con cui è stata disegnata si riconosce l’intesa profonda che i due ebbero nell’inventare questa mirabile dimora, una delle più raffinate dell’architetto. Portaluppi la chiamava “villa” e la chiara ispirazione arrivava dalla secessione viennese e dall’architettura alpina. A quei tempi via Jan era un prato fuori porta, e la casa sorgeva isolata, un po’ metafisica. Fu il nonno Francesco ad iniziare lì dentro una collezione di quadri, con alcune notevoli opere di Tosi, Ubaldo Oppi, Funi (Il marinaio), Sironi (I costruttori), Casorati (Una fanciulla). Fu perciò lui a far conoscere agli zii Antonio e Marieda i primi artisti ed a provocare in loro lo stesso contagio. A quei tempi lo zio Boschi non era ancora quell’alto dirigente della Pirelli e quell’infaticabile inventore di brevetti “gomma-ferro” che divenne dopo. Era un giovane appena laureato che, con la assoluta complicità della moglie, faceva ogni sacrificio pur di frequentare gallerie come quella del Milione, e di portarsi a casa un piccolo Carrà o una statuina di Arturo Martini. Marieda estroversa, bella, generosa, mondana, elegante e creativa era la perfetta seduttrice anche dei pittori più difficili, come ad esempio Morandi o Savinio. Era un mondo protetto e protettivo, per me bambino un po’ sogno e un po’ incubo, dove vigeva il piacere dell’intesa umana, della scoperta, del documento, delle capacità di scelta e di contatto. Le porte di tutti i nostri appartamenti di solito erano aperte, e la scala era come un soggiorno comune. Noi nipoti vivevamo sempre in quelle stanze anche un po’ kitsch, troppo piene anche di gatti e di cineserie, quell’atmosfera era il nostro luogo, si giocava sotto le tre gambe del Beckstein. In casa c’erano delle scalette, chiodi e un martello, e collocare un nuovo quadro significava spesso per lo zio modificare il puzzle interminabile di una intera parete, guadagnando centimetri, cornice contro cornice, per intere notti. Marieda cultrice e scultrice di ceramica, Antonio maestro di violino e colonnello nei dirigibili, nel loro lungo e solare matrimonio non ebbero figli. Gli eventi e i destini di tanti anni e generazioni successive hanno poi modificato molte cose, ognuna delle figure di queste immagini ha svolto e intrecciato il suo romanzo personale. La seconda guerra e lo sfollamento, il freddo, le paure, i partigiani, la fuga in campagna anche della collezione, appartengono ai prossimi due album di fotografie, che sono in programma.

Alessandro Mendini